Ritorno al Catria

Un racconto da "Mammifero Bipede"

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    Mammifero Bipede

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    (cliccare sull'immagine per vedere la foto panoramica completa)

    Per quest'anno, complice la gamba rotta di Emanuela, i nostri progetti di viaggi e vacanze si sono necessariamente ridimensionati. Le mie tre settimane di ferie si sono svolte in prevalenza a Pianello, con una breve puntata a Cimbano, presso il lago Trasimeno, dove siamo stati ospiti dei genitori di Manu.
    Ne ho approfittato per ripercorrere, in bicicletta, molti dei miei itinerari preferiti, immerso in una natura ancora relativamente intatta e con scenari e panorami assolutamente spettacolari. La parte del leone l'ha avuta il Monte Nerone, che ho ormai eletto a "mia montagna", ma non sono mancate esplorazioni alla ricerca di nuovi percorsi, ed itinerari che non frequentavo ormai da anni.
    Come "gran finale" mi sono tenuto la scalata del Monte Catria su una strada bianca il cui tratto finale, dismesso e semiabbandonato, è l'unica via per raggiungere in bicicletta la vetta (1702m) con la grande croce a traliccio. Un itinerario che avevo percorso una sola volta, anche allora in solitaria, più di dieci anni fa.
    Sentendomi in buona forma, anziché avvicinarmi in macchina al punto di partenza, come avevo fatto "illo tempore", mi muovo da casa direttamente in bicicletta in sella all'inossidabile "Velociraptor". All'uscita del paese (400m) prendo la strada di Caimercati per raggiungere lo svalico di Col Di Billo (620m). Da qui, passando per Vilano, raggiungo infine Cantiano (360m), ideale punto d'inizio della salita.
    Mi lascio quindi alle spalle la prima ascesa asfaltata, i dolci saliscendi fino al borghetto di Vilano e la lunga e divertente discesa su strada bianca che mi ha condotto alle porte di Cantiano. È ancora abbastanza presto (nemmeno le dieci), la mattina è fresca, le gambe vanno senza problemi, quindi senza fermarmi proseguo per Chiaserna (500m), dove conto di far rifornimento "viveri" ad un bar.
    Purtroppo il bar è in ristrutturazione, mangio un gelato e riparto senza ulteriori "riserve", contando sull'allenamento per raggiungere la cima e quindi recuperare energie acquistando e sgranocchiando qualcosa lungo la discesa. Sarà un gesto ottimista, ma senza gravi conseguenze. Proseguo sulla strada asfaltata fino al valico di Pian di Lucchio (650m) dove inizia la strada bianca e l'avventura vera, ovvero i restanti 1050 metri di dislivello fino alla cima.
    In cima al valico c'è una sorgente. Pochi mesi fa, in primavera, l'acqua sgorgava copiosa. Ora ne esce pochissima, riempio la borraccia ed imbocco il sentiero, che nel primo tratto appare molto trascurato. Di questa strada ricordo pochissimo, rampe terribili all'inizio, su un fondo di pietrisco smosso, alberi a nascondere il panorama fino ad alta quota ed in cima rampe spezzagambe su pendici quasi a strapiombo.
    Ma il ricordo è mendace. La strada sale all'inizio con pendenza molto regolare, ed il fondo, in questo tratto, è stato risistemato abbastanza di recente. Anche la cortina di alberi all'intorno è meno compatta di quanto ricordassi, lasciando intravvedere le pendici del monte Cucco più a sud, pur garantendo  un'ombreggiatura costante fino in quota.
    Mi inerpico lentamente e con regolarità, lungo la strada non c'è nessuno e scopro di apprezzare questa solitudine come una delle componenti più appaganti di queste mie uscite in bicicletta. È una condizione molto diversa da quella delle pedalate in gruppo che svolgo costantemente nel corso dell'anno.
    Sono solo con la montagna, in una dimensione che è sfida, ma anche senso di appartenenza. La strada si arrampica alternando pendici scoscese, macchie di querce basse e tratti dentro boschi di aghifoglie di grandi dimensioni, mai uguale a sé stessa, mentre la vetta, che scorgo occasionalmente, sembra non avvicinarsi mai.
    Dopo un ultimo tratto nel bosco, molto ripido e sconnesso, emergo sul Pian d'Ortica, a quota 1400m, e realizzo di essere a corto di risorse. Avrei dovuto portare qualcosa da mangiare, barrette o reintegratori, zuccheri di facile assimilazione, ma non sono abituato a sforzi così prolungati e di conseguenza non ho l'abitudine di portarne con me. Faccio una sosta stendendomi sul prato.
    Non vedo nessuno da diverse ore, ormai. La strada è completamente deserta. Il monte Catria, del suo, su questo versante è parecchio ripido e scosceso, oltre ai boschi non ci sono che sporadici alpeggi con poche bestie al pascolo. Uno spazio crudo ed inospitale, che mal tollera le strade tagliate dall'uomo ai suoi fianchi per addomesticarlo.
    Riparto in un silenzio turbato solo dallo scricchiolio dei sassi sotto le ruote e sottolineato dal soffio di una lieve brezza, che a tratti mi procura qualche brivido. Percorro quasi un chilometro in relativo piano raggiungendo l'ultimo bivio: a destra la discesa per l'eremo di Fonte Avellana, a sinistra la strada ormai abbandonata per la cima, che nonostante la stanchezza imbocco senza esitazione.
    Le ultime rampe sono impressionanti. La strada è larga a sufficienza per consentire il passaggio di un fuoristrada, ma il fondo è pessimo e dal lato che guarda a valle non esistono guard-rails (e meno male!). Sembra di stare su una di quelle "strade della morte" che si vedono nelle foto del Tibet, o delle Ande, tagliate su pendici digradanti quasi a strapiombo sul vuoto.
    Tutt'intorno è come se non ci fosse nulla, la montagna svetta solitaria circondata da alture che a fatica raggiungono i 1000m e da quest'altezza appaiono come semplici increspature del fondovalle. Mi fermo a scattare foto che so già non renderanno mai le sensazioni che sto provando.
    Mi affaccio, poco prima della cima, sul versante sud-ovest. Qui la parete della montagna digrada con un angolo ripidissimo formando un pratone quasi verticale, in fondo al quale, poco meno di un chilometro più in basso, si vede un bosco di alberi minutissimi. È un colpo d'occhio incredibile, quasi varrebbe la pena di venire fin quassù solo per questo spettacolo.
    Altre poche centinaia di metri, sconnessi e scomodissimi, e la strada finisce in un slargo. Alla cima mancano alcune decine di metri e la grande croce di ferro ammicca al di là del bordo erboso del prato. Dieci anni fa, ricordo, percorsi pedalando gli ultimi metri, entusiasticamente arrancando sull'erba.
    Stavolta, però, non se ne parla proprio. I molti chilometri e le diverse centinaia di metri di dislivello in più che mi sono autoinflitto partendo direttamente da casa, come pure la bici più pesante, mi hanno fiaccato oltre le aspettative. Ma a questo punto, pedalante o no, sono in cima, ed è ciò che conta.
    La cima del Catria, nella mia piccola esperienza di vita, è un "unicum", non ha confronti. Tanto ostica e difficile da raggiungere quanto spettacolare. Dirimpetto torreggia la cima gemella di Monte Acuto (1668m) alle cui spalle si scorge, molto in distanza, il Nerone (1525m). A suo modo è un po' come essere sul tetto del mondo, mentre intorno ogni cosa pare precipitata giù in basso.
    Assaporo per una buona mezz'ora queste sensazioni: il silenzio, l'altezza, la solitudine. Ed apprezzo quello che ho e che mi ha consentito di esserci e vivere la pienezza di questa esperienza: la salute fisica, la costanza, la determinazione.
    Poi è il momento di tornar giù, e finalmente i diversi chili di ammortizzatori di cui è dotata la bici trovano il modo di rendersi utili. La discesa su Fonte Avellana (750m) è una furibonda ed adrenalinica cavalcata di 10km sui sassi. La bici viaggia sicura sul fondo sconnesso, a velocità sostenuta. Da parte mia devo solo ricordarmi di rallentare in corrispondenza dei tornanti, mentre forcella e carro posteriore pompano su e giù per assorbire le asperità della strada malandata.
    Giunto all'eremo faccio provvista di carboidrati e mi regalo un quarto d'ora da turista, poi risalgo in sella e, dopo una breve risalita, mi butto in picchiata su Frontone (420m). Da qui in poi non c'è molto da raccontare, il pasto frugale mi ha ridato energie e le gambe tornano a girare, nel giro di un'ora o poco più, alle cinque passate, sono di nuovo a casa.
    Questo era ieri. Oggi il ricordo è ancora fresco e mi basta chiudere gli occhi per riviverlo, fra un po' mi aiuterà riguardare le foto, ma ancora più in là, ne sono certo, non potrò fare a meno di desiderare di risalire in sella e tornar su, pedalando, in cima al Catria, solo col vento, e l'erba, e il cielo sopra la testa, e tutto il mondo sotto i miei piedi... (ma raccontarlo non rende l'idea).


    Questo racconto è stato originariamente scritto e pubblicato sul mio blog "Mammifero Bipede", ma ho pensato di riproporlo anche qui perché, prima o poi, confido di riuscire a portarci anche un gruppo di ciclisti. Quest'anno non ci sono riuscito, ma chissà che più in là...
     
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0 replies since 31/8/2008, 09:50   42 views
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